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16 la giovinezza

V

L’ABATE FAZZINI


«E dopo, che farem noi?»

Questo motto di Cinea fu il tema d’una chiacchierata sul nostro destino, quando stavamo per terminare gli studi letterarii. Alla mia fervida immaginazione Cinea pareva un canonico, e Pirro era il grand’uomo. Io sognava quasi ogni giorno d’essere un imperatore. Quando mi vedevano a testa bassa e a bocca muta, mi davano un pizzicotto, e mi dicevano:— Che pensi? La famiglia s’era ingrandita. Morto era Francesco I, di cui non rammento nulla. Ferdinando II, il nuovo re, richiamò gli esuli. Tornarono i miei compaesani, e videro zio Carlo, e molte furono le tenerezze. Poi, zitto zitto presero la via del paese, fatti savii da quel duro esilio di otto anni. Solo rimase in casa zio Pietro, che ci menò anche gli altri due suoi figli, Aniello e Felicella, morta la madre. Cosi tutto questo ramo di famiglia era in Napoli; rimaneva in paese il babbo con la sua famiglia, al quale si aggiunse zio Giuseppe venuto di Roma. Aniello si teneva un po’ più alto di noi, perché era stato a Roma, e molto si vantava e diceva che lui più piccino sarebbe stato a guadagnar quattrini prima di noi. Giovanni era il diplomatico. Un po’ bassotto, aveva l’aspetto dolce e grave, parlava piano, sobrio nel gesto. Io era furia francese, come mi chiamava zio. Quando io ne sballava una grossa, — E viva la furia francese! — diceva lui. Parlavo divorando le sillabe, con una furia che mi faceva balbutire. Quando mi vedeva balbuziente, zio che voleva fare di me un avvocato, mi ricordava gli esercizii di Demostene, e mi diceva: — Sassolini in bocca! — E io fermava la corsa, ed ero così brutto con quelle labbra bavose. Tutti mi canzonavano, tutti ridevano di me; ma io che mi tenevo un grand’uomo, faceva una scrollatina di spalle. Quella mia indifferenza innanzi alle beffe pareva umiltà, ed era superbia. La mia testa vagabonda, nella quale danzava l’avvenire nelle sue forme più luccicanti, pregiava più quella sconfinata ambizione di Pirro