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22 la giovinezza

dispensando sorrisi e strette di mano e gentili motti. C’era quel mormorio che suol venire da una mescolanza confusa di voci. Ed ecco tutto a un tratto si udí un — Zitto! — e tutti gli occhi si volsero verso la tribuna. Chi è, chi non è? Ero proprio io col mio personcino e con la mia superbia. Stavo li dritto squadernando il sacro volume e precipitando versi sopra versi correndo senza fiato. C’era una certa curiosità, e dapprima si udiva con pazienza. Poi a ogni voltata della carta si cominciò a guardare con raccapriccio a quello che rimaneva. E volto e volto, e pareva che fossi sempre da capo. Quella gente era venuta non a sentir versi, ma a conversare e a manicare, e non osavano pestar dei piedi, era gente educata, ma si movevano in qua e in là, come chi non trova posa. Ippolito Certain, quel tal maestro di disegno che abitava con noi, stava presso a me e notava tutto, con lo sguardo verso l’uditorio; io con gli occhi sulla carta continuavo tronfio e precipitoso, come un torrente, rotte le dighe. Ippolito mi mise la mano alla bocca e disse: — Ferma che è tardi, — e la gente voleva andare. — Bravo, bravo! — si udí attorno; e io tirato pel braccio da Ippolito scesi col mio scartafaccio sotto il naso. Tutti si levarono in piedi, come liberi da un peso, quando: — Zitto! — si udí, e si vide alla tribuna un bassotto, che gridò: — Sonetto in lingua napoletana — . La brevità e la novità della poesia fece seder tutti. Giovannino, ch’era lui quel desso, recitava adagio e con grazia quelle frasi goffe, tutte da ridere, e terminò il sonetto tra una salva di applausi. La gente si precipitò verso il fortunato sonettista; e le signore lo baciavano; i giovani si congratulavano; i papà gli accarezzavano il mento, lui modesto e contento in tanta gloria. E l’abate sbirciando vide me tutto solo dall’altro lato, e venne e mi disse: — Hai dovuto faticar molto neh!, povero giovanotto. — Quindici giorni, — diss’io, alzando gli occhi stizzito. E l’abate mi fece una carezza, come per consolarmi.

Quando fummo di ritorno a casa, zia Marianna ci aspettava, e volle saper da me come l’era andato. Io aveva come uno strale nel core, e non ebbi la forza di confessare la mia sconfitta, e inorpellai un po’ le cose. — Ippolito mi disse ch’era tardi,