Pagina:De Sanctis, Francesco – La giovinezza e studi hegeliani, 1962 – BEIC 1802792.djvu/67

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il colera 61

stevano alla lezione, e più tardi vi parteciparono. Innanzi a loro sentivo anche più vergogna di fare il maestro, e prendevo il tono della conversazione, e poi, finito, continuavo a star con loro, e spesso uscivamo sul terrazzo, intrattenendoci in discorsi familiari. Talora facevo letture. La mia voce era chiara, intonata, ben variata, secondo il senso e l’affetto, un po’ enfatica. Quella declamazione piaceva loro moltissimo, e io, che vedevo l’effetto, ci aveva messo una certa vanità, e poco mi faceva pregare, e prendeva il libro in mano con un riso di soddisfazione anticipata. A poco a poco il maestro scomparve e rimase l’amico. Non volli danaro da loro, e ci andavo più spesso, e le ore fuggivano in quelle visite desiderate. Fino a quella età non mi era mai occorso di stare in compagnia di donne; quelle due giovanette amabili e ingenue mi attiravano con un sentimento che non sapevo e non volevo definire: insomma mi piaceva di star con loro, e mi si schiariva la faccia, e mi si scioglieva la lingua, io ingenuo al par di loro. Avevo per la donna un culto letterario, e mi sentivo disposto a piegar le ginocchia e adorarla. I miei sentimenti platonici e spirituali, vestiti di poesia, di cui sonava l’eco in Beatrice e in Laura, entusiasmavano quelle vergini nature, entusiasmavano me stesso. La faccia mi si trasformava; gli occhi scintillavano, volti al cielo; la voce tremava di commozione; talora nella declamazione si sentiva un accento di verità. Tuffato in queste distrazioni dello spirito, non mi accorgevo più del colera, se non quando lo vedevo rappresentato sulle facce de’ conoscenti.

Le occupazioni mi erano anche schermo contro il morbo, e non mi lasciavano tempo di pensarci. Da qualche mese avevo una lezione privata anche presso il duca di Cassano. Costui era un grosso omone, di buonissima pasta, e mi soleva ricevere con aria benevola, tanto che avevo preso dimestichezza seco. Facevo lezione a un suo figlio, una testa stordita e distratta che poco mi badava. Quel signorino aveva quasi l’aria di dirmi: — Non mi seccate — . Poco si andava innanzi, ancoraché io mi c’infervorassi. Il Duca, dopo la lezione, soleva intrattenersi un pochino con me, e la prima domanda era: — Come è andato? —