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v. l’«orlando furioso» | i63 |
L’endecasillabo nella sua struttura inchiude tutti gli altri versi. Per pronunziare questo verso secondo le regole, bisognerebbe fermarsi su «più»; ma sarebbe un controsenso. «Per debolezza» deve essere separato; «potea» dovrebbe essere accentato; ma l’accento cade sulla nona invece che sull’ottava; vi sono quattro pause: «Per debolézza piú nón potéa gire».
Zerbino agonizza; guardate Isabella; è disperata. Vi ricordate Ugolino immobile innanzi al figlio che dice: «Padre mio, ché non m’aiuti?». È la statua della disperazione. Isabella tace disperatamente:
Non sa che far, né che si debba dire. Per aiutarlo, la donzella umana. |
Ugolino è natura chiusa ed energica, che rimane chiusa fino all’ultimo. Isabella, debole ragazza, prorompe:
Ella non sa, se non invan dolersi. |
Prima i suoi lamenti sono parole inarticolate, poi acquistano un senso. Zerbino raccoglie le sue forze per calmar Isabella, e consolarla. La forma della sua consolazione ricorda Farinata, quando dice:
E ciò mi pesa piú che questo letto. |
L’infinito dell’altro mondo rende colossale il dolor morale. Nell’Ariosto, non vi sono le circostanze gigantesche. L’immagine d’Ariosto non è sublime, ma patetica. Il sublime non si descrive.
Zerbin, che i languidi occhi ha in lei conversi. Sente piú doglia ch’ella si querele. Che della passion tenace e forte Che l’ha condotto ornai vicino a morte. |
Zerbino parla. C’è in lui, ora, qualcosa che lo fa profondamente interessante. Muore, e r amore gli sopravvive, e si mostra geloso. Non dice: — Temo che mi tradisca — brutalmente:
— Cosi, cor mio, vogliate (le diceva). Dopo ch’io sarò morto, amarmi ancora. |