Pagina:De Sanctis, Francesco – La poesia cavalleresca e scritti vari, 1954 – BEIC 1801106.djvu/281

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lezioncine per campare la vita: fin d’allora io era giá in uggia alla Fortuna, che poi me ne ha fatte delle grosse: veramente, io non ho saputo mai cattivarmela. Il marchese Puoti aveva raccolte tutte le sue passioni in una, educare la gioventú alla buona lingua. E dico passione, perché aveva posto quivi l’unico scopo di sua vita, e di quivi procedevano le sue ire, le sue predilezioni, i suoi giudizi e pregiudizi. Guai, se ti veniva detto qualche gallicismo in sua presenza: un anno di studi ostinati nel dizionario e nella grammatica non valeva a farti evitare la tempesta.

L’avea molto co’ notari e gli avvocati, né ci era lezione che non ne toccassero delle buone: li chiamava carnefici della lingua. Ma co’ giornalisti sentiva una stizza, che mai la maggiore. Era giá qualche tempo, che il Governo tollerava i giornali letterari, sotto la paterna vigilanza della polizia. Quale tentazione pe’ giovani, che potevano mandare a papá o allo zio il loro nome stampato! Era una fede di grande uomo! — Ha stampato, — si diceva ne’ paesi, e tutto era detto. Acquistavano facilitá di scrivere, ma a scapito della purezza: «inde irae». Il marchese avea proibito, solennemente, a’ suoi giovani di scrivere nei giornali. Ogni di rabbuffi a’ giornalisti; e costoro, che non sono la gente piú mansueta del mondo, a frizzare, a mordere, a bandirgli la croce.

Un giorno, viene a me un giovane, e con un’aria tra il trepido ed il misterioso mi dá a leggere un lavoro. Era un insipido racconto, tirato giú come Dio vel dica. Mi pregava volessi aiutarlo de’ miei consigli, perché, ed abbassava la voce, come se il marchese stesse li a sentirlo, perché un amico di un suo amico gli aveva promesso di farlo stampare in un giornale. Impallidii, ed egli impallidí del mio impallidire: — E se lo sapesse il marchese? — dicevano i nostri volti. Pure, dálli e dálli, mi lasciai persuadere, e ci chiudemmo in camera, agitati come due malfattori. Quel lavoro usci di sotto le nostre due penne un miracolo di pendanteria, con certi periodoni alla Cinquecento, con certe anticaglie alla Trecento, una infilzata di frasi stiracchiate in certi giri affannosi, cucite con certi «con-