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«la viola mammola» di n. amata 287

veritá, questo «vi voglio amare», che esce dal cuore di una fanciulla. «Infino all’ultimo!». La povera Nannina quest’«ultimo» se lo sente avvicinare, e «infino all’ultimo» ripete malinconicamente, con imo di quei naturali, veri passaggi, che non si scoprono, ma ti vengono innanzi, quando si parla col cuore. Pensando alla morte, sentiamo il bisogno di sopravvivere a noi stessi, e pensiamo quello che si dirá di noi, e che i nostri cari non ci dimenticheranno, e che alcun pietoso verrá pure talvolta a porre un fiore sulla nostra fossa. Queste immagini allontanano dalla morte ciò che vi è di cupo e di amaro, e l’accompagnano con un non so che di tenero, che elice dagli occhi dolci lagrime. Tali sono le immagini che assediano la fanciulla, mentre, correndo col pensiero a quell’«ultimo», le fuggono dalla penna questi quattro versi inarrivabili:

     Oh sino all’ultimo
Avervi io possa!...
E spuntin mammole
Sulla mia fossa.

Sono versi che dicono poco, ma dove s’affaccia tutta una serie d’immagini e di sentimenti, come tutta l’anima s’affaccia talora in uno sguardo. La fanciulla era trista, e si nutria della sua tristezza. Ché cosí siamo fatti: — Non ci devi pensare, — ci dicono e ci diciamo, e quel pensiero con tanto piú d’ostinazione si affaccia. Ci compiacciamo a roderci, a struggerci noi stessi. — Perché sei si trista, Nannina?, le diceva il maestro, non bisogna pensare a quelle cose. — Perdonatemi, rispondeva la fanciulla, sono trista. — E pensava. Pensava al suo ultimo giorno, al letto di morte, al cimitero, alla fossa. I due ultimi versi sopraggiungono inaspettati, e sono una vera rivelazione, un lampo che illumina tutta quell’anima: ne scappan fuori tutti questi scuri pensieri. Ma al di sopra di questa insanabile tristezza spira non so che di gentile, che la raddolcisce, la purifica, trasformandola in una cara malinconia: la malinconia è la poesia della tristezza. Quando siamo tristi, siamo affettuosi, sentiamo tanto bisogno di amare e di essere amati. L’occhio cerca un altro