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concetto astratto, che aleggia al di sopra della sua rappresentazione e vi si introduce a quando a quando e turba la chiarezza e l’armomia, vizia anche in parte il suo stile.

Dotato di un’acuta intelligenza, dimesticatosi con le piú astruse dottrine di quei tempi ed avvezzo alle ingegnose argomentazioni delle scuole, non sempre ei si contenta della schietta e lucida esposizione omerica, ma va talora cercando rapporti lontani e sottili; sicché, in luogo di chiarire ed illustrare, non riesce che ad intralciare ed intenebrare. Cosi nel canto XXVII del Paradiso:

                                         E tal nella sembianza sua divenne,
Qual diverrebbe Giove, s’egli e Marte
Fossero augelli e cambiassersi penne.
               

E nel canto XXV:

                                         Poscia tra esse un lume si schiarí,
Sí che se il Cancro avesse un tal cristallo,
Il verno avrebbe un mese d’un sol dí.
               

Quando egli scriveva cosí, il suo animo si trovava in uno stato impoetico, e tutta la sua scienza astronomica non vale ad illuminarci né quella sembianza né quella luce. Questi difetti rimangono però parziali e non penetrano nella essenza stessa della concezione poetica. Dante volle fare una poesia allegorica, e non vi riuscí, perché era poeta: il poeta vinse il critico, la poesia trionfò della poetica. La favola, quello ch’egli chiama bella menzogna, innalza la sua fantasia e lo soverchia, ed egli vi si lascia ir dietro come innamorato, né sa creare a metá, né sa arrestarsi a mezzo il cammino. Nel caldo della ispirazione non sa egli, come vien fatto agl’ingegni mezzani, serbarsi tranquillo e pacato, col suo pensiero preconcetto innanzi, e immaginare figure mozze che vi rispondano con perfetto riscontro, particolare con particolare, accessorio con accessorio. No, no. Innanzi a Dante i pensieri diventano fantasmi: vuol