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gna di sconsolati epiteti «giornata incerta e bruna» «arido suolo»: è il presente che gli sta inesorabile davanti e gli toglie ogni dolcezza del passato. Né si tosto dice «a palpitar mi sveglio» che in luogo di fermarsi con compiacenza su quel fuggitivo momento di gioia, il presente lo incalza, e lo interrompe, e n’esce quel grido di desiderio impotente:

                                                   .  .  .  .  .  E potess’io,
Nel secol tristo e in questo aer nefando.
L’alta specie serbar.
                         


Quanta melanconia in quell’agricoltore che fatica e canta e lui che siede e si lagna! Quanto strazio in quell’«ornai», che ti fa trasparire nel passato successive illusioni distrutte e rinascenti, ora mancate per sempre:

                                                        Viva mirarti omai
Nulla speme m’avanza.
                         


Quant’amarezza di contrasto fra la vaga stella ove contempla la sua donna e la terra ove dimora egli:

                               O s’altra terra ne’ superni giri
Tra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E piú vaga del Sol prossima stella
T’irraggia e piú benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi.
                         


È una tristezza plumbea, ritirata in sé stessa senza espansione, senza eloquenza; una delle tante facce che prende la malinconia della Urica leopardiana. E siccome nel dolore dell’individuo è qui in chiuso un sentimento piú generale, siccome questo contrasto fra l’ideale ed il reale è una delle tante forme sotto le quali si presenta l’enigma della vita; lo scopo di questa poesia non è di destar la nostra compassione pei mah di un uomo, poniamo grandissimi, ma di renderci tristamente medita-