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«satana e le grazie» di g. prati 87

Don Mario: il poeta poteva quindi soggiungere un «eccetera», cioè a dire: e cosí l’altra innamora l’altro e l’altra l’altro. Ma siccome questo «eccetera» è poco poetico, l’autore ti dice il medesimo con diverse frasi, e talora si secca egli stesso del giuoco, e ti traduce l’eccetera in italiano. Èva guarda. Luce sorride, Nella canta; la voce del prete trema; la voce del magistrato muore in un sospiro; ed il soldato è commosso da palpiti. È un giuoco di frasi, che potete cambiare o scambiare a talento; e potete ben farmi ridere Nella, cantare Èva, sospirare il soldato e palpitare il prete. Il poeta ha passato in mostra i varii modi dell’innamorare e le varie impressioni degl’innamorati, e le dispensa a dritta e a manca senz’altro criterio che il caso, dovendo pur dire lo stesso con una frase differente. Talora se ne stanca, ed ecco uscir fuori l’«eccetera» che è in fondo della situazione:

          .  .  .  .   Nell’ora istessa
Cosi Luce ad Eraclito parlava,
Cosi Nella ad Erman.

È una canzone con tre ritornelli, una lettera in tre caratteri, una idea in tre frasi;

Tal Reina di Mario Èva si rese;
Tal Reina d’Eraclito fu Luce;
Tal Reina d’Erman l’inclita Nella.

Non vi è cosa piú contraria alla poesia, che questa vuota unitá nella quale non è alcuna differenza o pienezza di vita individuale. Il poeta è cosí condannato ai luoghi comuni. Dev’egli rappresentarmi il rimorso dei tre rei? Il rimorso è poetico quando si mescola con tutt’i pensieri e i sentimenti e le rimembranze della vita; ma come qui non ci è vita, che cosa rimane? Il rimorso concepito astrattamente, un luogo comune sotto frasi sonore.

Slánciati, o reo, del tuo cavallo in tergo.
Ma su quel tergo non starai tu solo.
Slánciati, o reo, su barca agile ai flutti.