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schopenhauer e leopardi 139

scendendo con le proprie gambe in questa valle di lagrime, come Empedocle ed il Salve Regina chiamano il mondo.

A. E perché mo’ tutto questo?

D. Perché il «Wille» come infinito non può appagare sé stesso sotto questa o quella forma, dove trova sempre un limite. Prendere dunque una forma è la sua infelicitá; il suo peccato, la sua miseria è nel dire: — Io voglio vivere — .

A. Farebbe dunque meglio a dire: — Io voglio morire — .

D. Certamente. La morte è la fine del male e del dolore, è il «Wille» che ritorna sé stesso, eternamente libero e felice. Vivere per soffrire è la piú grande delle asinitá.

                                    Se la vita è sventura.
Perché da noi si dura?
                              
La vita è un fenomeno, un’apparenza, «pulvis et umbra», vanitá delle vanitá; dove non ci è altro di reale che il dolore; e se ne togli il dolore, rimane la noia.

A. Mi pare che ti sii distratto; e che da Schopenhauer sii caduto in Leopardi.

D. Leopardi e Schopenhauer sono una cosa. Quasi nello stesso tempo l’uno creava la metafisica e l’altro la poesia del dolore. Leopardi vedeva il mondo cosí, e non sapeva il perché.

                                    Arcano è tutto
Fuorché il nostro dolor.
                              
Il perché l’ha trovato Schopenhauer con la scoperta del «Wille».

A. Forseché Leopardi non ti parla di un «brutto poter, che ascoso a comun danno impera», e forse non gli appicca subito dopo «l’infinita vanitá del tutto»? Mi par che questo sia propriamente il «Wille», giacente sotto tutta quella serie di vane apparenze che dicesi mondo.

D. Con questa differenza, che «il poter» del Leopardi è la materia eterna dotata di una o piú forze misteriose; laddove il potere di Schopenhauer è una forza unica, il «Wille», e la materia è il velo di Maia, una sua apparenza. L’uno è materialista, e l’altro è spiritualista.