Pagina:De Sanctis, Francesco – Saggi critici, Vol. II, 1952 – BEIC 1804122.djvu/289

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il farinata di dante 283

Ecco il sonetto:

                                    A ciascun’alma presa e gentil core
Nel cui cospetto viene il dir presente,
A ciò che mi riscrivan suo parvente,
Salute in lor signor, cioè Amore.
     Giá eran quasi che atterzate l’ore
Del tempo che la stella è più lucente,
Quando m’apparve Amor subitamente,
Cui essenza membrar mi dá orrore.
     Allegro mi sembrava Amor, tenendo
Mio core in mano, e nelle braccia avea
Madonna, avvolta in un drappo dormendo.
     Poi la svegliava, e d’esto core ardendo
La paventosa umilmente pascea:
Appresso gir lo ne vedea piangendo.
                         

Questa specie di sciarada o di rebus piacque molto a quella radunanza, e parecchi non disdegnarono di farvi risposta, interpretando ciascuno il sogno a suo modo. Fra gli altri era Guido Cavalcanti, poeta giá celebre, e che, profondo filosofo e moralista, sforzavasi di alzare la poesia a qualche cosa di sostanziale, maritandola con la filosofia, e dispregiava le nude forme poetiche e con esse i poeti come Virgilio. A Guido non dové dunque dispiacere un sonetto immaginato secondo la sua scuola e la sua maniera, e non contento a farci la risposta, giudicando esser quello un lavoro di giovane tirone entrato pur allora nell’arringo poetico e che per modestia o timidezza celasse il suo nome, per uno di quei movimenti spontanei che rivelano un nobile core, sentí bisogno di conoscerlo e lo conobbe: l’autore era un giovane di diciannove anni e si chiamava Dante Alighieri. Da quel tempo cominciò fra Dante e Guido una comunanza di affetti che non si ruppe se non per morte. Amendue d’alto ingegno, amendue poeti, amendue innamorati: Dante parlava a Guido della sua Beatrice, e Guido parlava a Dante della sua Mandetta; e quando entrarono nella vita pubblica, amendue d’una parte, amendue esuli, amendue