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le nuove canzoni di leopardi 233


rode. Vedi talora uno studio a causare i modi consueti e l’andatura facile, a latinizzare, a periodare, a un fare solenne e peregrino. C’è luce, ma una luce talora faticosa, che esce a stento di mezzo alle tenebre. Quel suo condensare concetti e forme è certamente uno dei mezzi estetici piú possenti, e produce il suo effetto, quando ti fa lampeggiare immagini e sentimenti che vi sieno immediatamente e intimamente connessi. Ma se stai perplesso, e sei nel buio, e ti senti sforzato a deciferare, l’impressione estetica è ita. Ora hai soverchia analisi, ora sintesi crude non bene preparate. Quelle «fere» e «augelli», per esempio, intorno a cui riflette Bruto, è un troppo sminuzzare, e nulla aggiunge alla felicissima antitesi di Roma in rovina guardata da «placida luna», e quelle «tinte glebe» e «ululati spechi» sono sintesi buie, che non ti gittano nell’anima una visione immediata. Senti in queste forme faticose, venute da un soverchio profondare e assottigliarsi di un intelletto concentrato, l’umore denso e chiuso di uno spirito solitario. Ti accorgi che colui che scrive sta fuori del commercio del mondo, isolato nello stesso suo paese, tra l’ambiente viziato della sua camera, senza eco, senz’attrito, e vive in un ambiente fittizio, creatogli da’ libri e dall’umore fosco, straniero alla vita italiana e contemporanea. Ma quando di mezzo a queste forme laboriose escono lampeggíi e fulgori nuovi e inattesi di un sentimento a fatica contenuto, e te ne senti percosso, manca il coraggio del biasimo, e pieghi la fronte, come si fa innanzi a uno spirito superiore. Soprattutto la Saffo e il Bruto rimarranno monumenti originali di un Prometeo inchiodato nella sua solitudine. E non morrá la sua Donna, dove la forma si ammollisce, con una misura di sentimenti, una castitá d’immagini, un’armonia di composizione, che ti fa presentire piú felici creazioni.

[Nella «Nuova Antologia», giugno i877.]