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l’ugolino di dante 39

muove nelle nostre fibre. Non intesero giá quel primo sguardo del padre fisso e travolto, quando senti chiuder l’uscio: «Tu guardi si, padre: che hai?». Ora non solo non intendono, ma fraintendono quel suo mordersi la roano. «Credendo ch’io il fessi per voglia di manicar.» Ignari delle nostre passioni, interpretano quell’atto nel modo piú immediato e letterale. Sentono fame, e giudicano da sé: mordere significa per loro mangiare. Il padre che per fame si mangia le mani è tal cosa, li percuote di tale spavento, che ad un attore intelligente farebbe comprendere tutto ciò che si chiude in quel grido: — «Padre!» — accompagnato col subitaneo levarsi in piè di tutti e quattro, essi che stavano a terra esausti per fame. Quel grido, quel levarsi in piè ha la virtú di arrestare il padre, di restituirgli la padronanza di sé, tolto per forza a quell’istante di obblio, di fargli ricordare che è padre, e non gli è permesso di essere uomo. Quel loro offrirsi in pasto al padre non è giá sublime sacrificio dell’amor filiale, sentimento troppo virile ne’ teneri petti; è un’offerta trasformata immediatamente in una preghiera, come di cosa desiderata e invocata: — Uccidici! tronca la nostra agonia!

                                                        Tu ne vestisti
Queste misere carni e tu le spoglia — .
                         

«Misere carni!» Essi sentono giá dissolversi e mancar la vita. «Misere» qui vuol dire estenuate, dove giá penetra la morte. Quelli che spiegano la parola in senso spirituale e ti pescano qui un concetto teologico, meriterebbero di andare a braccetto col padre Cesari, che fra tante sue «bellezze di Dante» trova qui una bruttezza, un fatto fuor del naturale e del verosimile, proprio qui, in questo coro de’ quattro immortali fanciulli, che è stato l’ammirazione de’ secoli.

Ugolino, ritornando padre, ritorna statua:

                                    Quetaimi allor, per non farli piú tristi;
Quel di e l’altro stemmo tutti muti.