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i46 saggio critico sul petrarca


litico e letterario, che lá erano i suoi antenati, e vi si congiungeva immediatamente, gittando un’occhiata di disdegno sopra i tempi oscuri e barbari che corsero di mezzo. Oggi noi vediamo due Italie, l’Italia romana e l’altra del Medio evo; allora le due Italie innanzi allo spirito erano una sola, la stessa storia in continuazione. L’eco di questa grandezza risuona alteramente nella canzone.

Risuona come eco. Non lodi pompose, non descrizioni, non dimostrazioni. L’importanza e la ricchezza delle cose, il calore della convinzione, chiude adito ad ogni declamazione, ad ogni puro gioco di frasi. Il poeta è la voce universale, dice cose che sa ammesse e sentite da tutti. Si contenta di dire: «i nostri dolci campi, il nostro ferro, la tedesca rabbia, virtú contra furore»; e fa grande effetto, perché tutte le idee accessorie che queste semplici parole risvegliano, si affacciano tutte alla coscienza pubblica. Anche oggi, dopo tanto tempo, un italiano muta colore innanzi a queste parole, che suscitano tanti sentimenti. Il poeta è riuscito a destare le piú diverse passioni con un semplice tocco di questa e quella corda, e tutte le tocca, tutte risuonano lungamente nell’anima.

L’orgoglio nazionale e l’odio dei barbari, che sono qui i due sentimenti principali, non sono sviluppati ciascuno per sé con un ordine artificiale, com’è nella canzone a Cola. Entrano l’uno nell’altro, si condizionano e si giustificano a vicenda; sentite che quello c’è d’eccessivo nell’uno è determinato dalla presenza dell’altro. Non c’è scoppio d’orgoglio che non provochi uno scoppio di sdegno; e quando il poeta sta col piede sul barbaro, sorride alteramente, col fiero tono del romanus sum:

                                    Ed è questo del seme,
Per piú dolor, del popolo senza legge,
Al qual, come si legge,
Mario aperse si il fianco,
Che memoria dell’opra anco non langue,
Quando, assetato e stanco,
Non piú bevve del fiume acqua, che sangue.