Pagina:De Sanctis, Francesco – Saggio critico sul Petrarca, 1954 – BEIC 1805656.djvu/203

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x. trasfigurazione di laura i97


E quale gioja, quando l’invocata gli raggia innanzi! È dessa! quell’andare, quella voce, quel vólto, quei panni (son. XIV):
                                         Quanto gradisco ch’e’ miei tristi giorni
A rallegrar di tua vista consenti!
Cosi incomincio a ritrovar presenti
Le tue bellezze a’ suoi usati soggiorni.
     La ’ve cantando andai di te molt’anni,
Or, come vedi, vo di te piangendo;
Di te piangendo no, ma de’ miei danni.
     Sol un riposo trovo in molti affanni;
Che, quando torni, ti conosco e ’ntendo
All’andar, alla voce, al volto, a’ panni.
     
La bellezza di questi versi è una certa voce di pianto, con la quale il poeta esprime la sua gioja, come chi, nella sventura accarezzato, ancora tutto lacrimoso sorride. Si vede all’imbarazzo ed improprietá dell’espressione che il linguaggio della gioja gli è ancor nuovo, e fra il gioire guaisce con tenerezza e semplicitá. Il primo ternario vale tutto il sonetto.

Questi ultimi tempi del Petrarca sono commoventi. E un ritorno di gioventú, ma non si che non t’accorga, a un non so che di flebile e di tenero nel tòno, del corso degli anni. Il suo dolore ha purificata l’anima, l’ha nettata delle scorie del passato, come direbbe Dante, e l’ha fatta capace di nuove gioje. Tutto si rabbella. La vita ritorna nell’anima, e ritorna nel tutto. Laura rinasce: intorno a lei la natura racquista il moto e il riso.

Certo, il poeta non pensa mai a Laura sotterra, che subito non la metta in cielo; ma gli occhi velati dal dolore non possono alzarsi colá, non distaccarsi dal cadavere (son. IX):

                                                             è sotterra; anzi è nel cielo.
Onde piú che mai chiara al cor traluce;
     Agli occhi no, che un doloroso velo
Contende lor la desiata luce,
E me fa si per tempo cangiar pelo.