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xix - la nuova scienza 249


che non sapemo se il parlare è parlare». Domandava egli a Galileo una riforma dell’astronomia e della matematica sublime, una vera filosofia naturale. «Scriva pel primo — diceva — che questa filosofia è d’Italia, da Filolao e Timeo in parte, e che Copernico la rubò da’ predetti e dal ferrarese, suo maestro; perché è gran vergogna che ci vincan le nazioni che noi avemo di selvagge fatte domestiche». Ma Galileo rimase fermo nella sua via. Anche lui aveva i suoi pensieri e le sue ipotesi; ma gli parea che il vero filosofo naturale dovesse lasciare il verisimile, e attenersi a ciò che è incontrastabilmente vero. E rispondea a Campanella ch’ei non voleva «per alcun modo, con cento e piú proposizioni apparenti delle cose naturali, screditare e perdere il vanto di dieci o dodici sole, da lui ritrovate, e che sapeva per dimostrazione esser vere». Stavano a fronte la saviezza fiorentina e l’immaginazione napoletana, o, per dir meglio, due colture: la coltura toscana, giá chiusa in sé e matura e veramente positiva, e la coltura meridionale, ancor giovane e speculativa e in tutta l’impazienza e l’abbondanza della giovanezza. In Galileo si sente Machiavelli; e in Campanella si sente Bruno. Vedi la differenza anche nello scrivere. Chi legge le lettere, i trattati, i dialoghi di Galileo, vi trova subito l’impronta della coltura toscana nella sua maturitá: uno stile tutto cose e tutto pensiero, scevro di ogni pretensione e di ogni maniera, in quella forma diretta e propria in che è l’ultima perfezione della prosa. Usa i modi servili del tempo senza servilitá, anzi tra’ suoi baciamano penetra un’aria di dignitá e di semplicitá, che lo tiene alto su’ suoi protettori. Non cerca eleganza né vezzi, severo e schietto, come uomo intento alla sostanza delle cose e incurante di ogni lenocinio. Ma, se cansa le esagerazioni e gli artifici letterari, non ha la forza di rinnovare quella forma convenzionale, divenuta modello. Avvolto in quel fraseggiare d’uso, frondoso e monotono, trovi concetti nuovi e arditi in una forma petrificata dall’abitudine: pure eletta, castigata, perspicua, di un perfetto buon gusto. Al contrario in Bruno e in Campanella la forma è scorretta, rozza, disuguale, senza fisonomia; ma, ne’ suoi balzi e nelle sue disuguaglianze,