Pagina:Deledda - Canne al vento, Milano, 1913.djvu/124

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famiglia alla quale era attaccato come il musco alla pietra, e non sapeva che dire, non sapeva che fare.

— Oh, — sospirò profondamente Giacinto. — Ma di qui me ne vado certo; non aspetto che mi caccino via! Sono senza carità, mie zie, specialmente zia Noemi. Non m’importa, però: essa non ha perdonato mia madre; come può perdonare me? Ma io, ma io....

Abbassò la testa e trasse di saccoccia una lettera.

— Vedi, Efix? So tutto. Se zia Noemi non ha perdonato mia madre dopo questa lettera come può aver l’animo buono? Tu lo sai cosa c’è, in questa lettera, l’hai portata tu, a zia Noemi. Ed io gliel’ho presa: stava sul lettuccio, il giorno del mio arrivo: io ne lessi qualche riga, poi la presi dall’armadio, oggi.... È mia; è di mia madre; è mia.... Non è degna di stare là, questa lettera....

— Giacinto! Dammela! — disse Efix stendendo le mani. — Non è tua! Dammela: la riporterò io, alle mie padrone.

Ma Giacinto stringeva la lettera fra le palme delle mani e scuoteva la testa. Efix cercò di prendergliela: supplicava, pareva domandasse un’elemosina suprema.

— Giacinto, dammela. La riporterò io, la rimetterò nell’armadio. Parlerò io con loro, metterò pace. Tu aspettami qui. Ma dammi la lettera.