Pagina:Deledda - Canne al vento, Milano, 1913.djvu/141

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toli acuti come coltelli, in faccia al sole cremis fermo sopra i monti violetti di Dorgali, un signore l’aveva raggiunta, silenzioso, toccandola per la spalla. Era vestito del colore del sole e dei monti, e il viso si rassomigliava a quello di un figlio di don Zame Pintor morto giovane.

Ella lo aveva subito riconosciuto: era il Barone, uno dei tanti antichi baroni i cui spiriti vivevano ancora tra le rovine del Castello, nei sotterranei scavati entro la collina e che finivano nel mare.

— Ragazza, — le disse con voce straniera, — corri dalla Maestra di parto, e pregala di venir su stanotte al Castello, perchè mia moglie, la Barona, ha i dolori. Corri, salva un’anima. Tieni il segreto. Prendi questo.

Ma Kallina tremava sostenendosi al suo fascio di legna che contro il sole cremis le pareva una nuvola nera; non potè quindi stendere la manina e le monete d’oro che il Barone porgeva caddero per terra.

Egli sparve. Ella buttò il fascio, raccolse i denari paurosa come l’uccellino che becca le briciole e scappò via agile saltellante; ma la Maestra di parto, sebbene vedesse le monete calde umide entro i pugni ardenti di lei, le sputacchiò sul viso per toglierle lo spavento e le disse ridendo:

— Va che hai la febbre e il delirio; le monete le avrai trovate. Se ne trovano ancora,