Pagina:Deledda - Canne al vento, Milano, 1913.djvu/144

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gento fino al suo petto legnoso, e dalla scollatura della camicia si vedeva la moneta d’oro infilata nel coreggiuolo diventato nero.


Giacinto non rimase contento. Cos’era quel foglietto sottile in paragone dei tesori dei grandi signori del Continente? Ma come l’usuraia diceva di non voler la cambiale, egli capì che ella gli faceva una elemosina, e provò un’angoscia insostenibile: gli parve d’essere ancora nell’anticamera del capitano di porto, immobile ad aspettare.

— Allora non più tardi di domani ve li restituirò, — promise alzandosi.

E andò dal Milese per dirgli che l’indomani partiva.

Anche là, attraverso la porta si vedeva il cortile bianco e nero di luna e dell’ombra del pergolato: la suocera seduta sulla sua scranna da regina primitiva non filava per rispetto alla Giobiana, chiacchierando con la figlia febbricitante e con le serve pallide sedute per terra appoggiate al muro.

— Mio genero è uscito un momento fa; dev’essere andato da don Predu, — disse a Giacinto. — E le zie di vossignoria stan bene? Le saluti tanto e le ringrazi per il regalo che han mandato a mio fratello il Rettore.

— Le susine nere! — disse una serva golosa. — Natòlia, corfu ’e mazza a conca, se le ha mangiate tutte di nascosto.