Pagina:Deledda - Canne al vento, Milano, 1913.djvu/15

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tile, ma stava ferma appoggiata alla scopa e ascoltava.

— Una lettera? Non sai di chi è?

— Io no; non so leggere. Ma la mia nonna dice che forse è di sennor Giacinto il nipote delle vostre padrone.

Sì, Efix lo sentiva; doveva esser così: tuttavia si grattava pensieroso la guancia, a testa china, e sperava e temeva d’ingannarsi.

Il ragazzo s’era seduto stanco sulla pietra davanti alla capanna e si slacciava gli scarponi domandando se non c’era nulla da mangiare.

— Ho corso come un cerbiatto: avevo paura dei folletti....

Efix sollevò il viso olivastro duro come una maschera di bronzo, e fissò il ragazzo coi piccoli occhi azzurrognoli infossati e circondati di rughe: e quegli occhi vivi lucenti esprimevano un’angoscia infantile.

— Ti han detto s’io devo tornare domani o stanotte?

— Domani, vi dico! Intanto che voi sarete in paese io starò qui a guardare il podere.

Il servo era abituato a obbedire alle sue padrone e non fece altre richieste: tirò una cipolla dal grappolo, un pezzo di pane dalla bisaccia e mentre il ragazzo mangiava ridendo e piangendo per l’odore dell’aspro companatico, ripresero a chiacchierare. I personaggi più importanti del paese attraversavano il