Pagina:Deledda - Canne al vento, Milano, 1913.djvu/175

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Perchè vieni a tormentarmi? Lo sapevo, che saresti venuto, e ti aspettavo. Tu, tu almeno devi comprendere e non condannarmi. Hai capito? Non rispondi adesso? Ah, tremi, adesso, assassino? Va, che mi vergogno di averti toccato.

Gli diede uno spintone e s’avviò per andarsene. Efix lo rincorse, gli afferrò la mano.

— Aspetta!

Stettero un momento in silenzio, come ascoltando una voce lontana.

— Giacinto! Devi dirmi una cosa sola. Giacinto! Ti parlo come fossi moribondo. Giacì! Dimmelo per l’anima di tua madre! Come hai saputo?

— Che cosa t’importa?

— Dimmelo, dimmelo, Giacì! per l’anima di tua madre.

Giacinto non dimenticò mai gli occhi di Efix in quel momento; occhi che pareva implorassero dalla profondità di un abisso, mentre la mano che stringeva la sua lo tirava giù verso terra e il corpo del servo si piegava si piegava e cadeva lentamente.

Ma tacque.

Efix gli lasciò la mano; cadde piegato su sè stesso brancicando la terra e cominciò a tossire e a vomitare sangue: il suo viso era nero, decomposto. Giacinto credette che morisse. Lo tirò su, lo appoggiò con le spalle al muro, si sollevò e stette a guardarlo dall’alto.