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Attraverso la porta aperta della vecchia Pottoi si vedeva Grixenda china sulla fiamma del focolare a far bollire il caffè per la nonna ch’era a letto malata.

— Ti secchi ogni giorno di più, — disse Natòlia entrando.

Grixenda infatti era magra e pallida; acerba ancora, ma come inaridita; certe mosse del collo scarno e del viso giallastro ricordavano quelle della nonna. Solo gli occhi brillavano grandi e chiari, pieni di una luce melanconica e insieme perfida, come l’acqua delle paludi giù fra i giuncheti della pianura.

— Il caffè mi si raffredda: adesso poi son venute le tue zie, e diventerà di ghiaccio, — disse Natòlia, traendo la caffettiera dal cofanetto. — Così me ne bevo un po’ anch’io.

— Le mie zie! Che sian fustigate! E tu con loro! Se vuoteranno tutto il sacco dei loro peccati, certo troverai il tuo padrone morto di sincope dentro il confessionale....

— Che lingua! Si vede che t’ha morsicato la vipera. Prendi un biscotto, eccolo, te l’offro come un fiore per raddolcirti il cuore....

Ma Grixenda aveva davvero il cuore attossicato e non accettava scherzi.

— Se sei venuta per pungermi ti sbagli, Natòlia: spine tu non ne hai, perchè sei l’euforbia, non la rosa. Io non ho dolori, non ho dispiaceri: son forte come il pino in riva al fiume. E verrà un giorno che tu mi man-