Pagina:Deledda - Canne al vento, Milano, 1913.djvu/64

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Apparecchiò la tavola nell’attigua camera da pranzo abbondonata e umida come una cantina, e cominciò a servirlo scusandosi di non potergli offrire altro.

— In questo paese bisogna contentarsi....

Giacinto schiacciava le noci con le sue forti mani, tendendo l’orecchio al tintinnio delle greggie che passavano dietro la casa. Era quasi notte; il Monte era diventato scuro e là dentro in quell’umida stanza dalle pareti macchiate di verde pareva d’essere in una grotta, lontani dal mondo. Le descrizioni che Noemi faceva della festa lo suggestionavano. Egli la guardava, un po’ stanco e assonnato, e quella figura nera sullo sfondo ancora lucido del finestrino, coi capelli folti e le mani piccole appoggiate al tavolo melanconico, doveva ricordargli i racconti nostalgici di sua madre, perchè cominciò a domandar notizie di persone del paese che erano morte o di cui Noemi non s’interessava affatto.

— Zio Pietro? Com’è questo zio Pietro? È il più ricco, vero? Quanto può possedere?

— È ricco, sì, certo: ma è una testa! Superbo come un giudeo.

— Egli dà denari a usura?

Noemi arrossì, perchè sebbene le relazioni col cugino fossero tese, le sembrava un’ingiuria personale dare dell’usuraio a un nobile Pintor.