Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/158

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rendeva felice, o l’addio a tulle le piccole e misere cose del passato, o la gioia un po’ paurosa della libertà, o il pensiero del mondo ignoto verso cui correva?

Egli non sapeva, nè cercava sapere.

Un’ebbrezza profonda, fatta di orgoglio e di voluttà, lo avvolgeva come un vapore odoroso, attraverso il cui velo egli intravedeva orizzonti mai prima sognati. Come era bella e facile la vita! Egli si sentiva forte, bello, vittorioso: tutte le donne lo amavano, tutte le porte della vita si aprivano davanti a lui.

Lungo il viaggio da Nuoro a Macomer stette sempre sul terrazzino del vagone, scosso fortemente dall’urto dispettoso del piccolo treno. Poca gente saliva o scendeva nelle stazioni desolate, e le acacie, lungo la linea, pareva aspettassero il treno per gettargli contro nembi di foglioline gialle.

— Ecco, — dicevano le acacie al treno, — prendi, piccolo mostro dispettoso; noi stiamo sempre ferme e tu cammini. Che cosa pretendi di più?

— Sì, — pensava lo studente, — la vita è nel moto.

E gli pareva di sentire la forza gioconda dell’acqua agitata, mentre fino a quel giorno la sua anima era stata una piccola palude con le sponde soffocate da erbe fetide. Sì, le acacie smarrite nelle immote solitudini sarde avevano ragione: sì, muoversi, andare, correre vertiginosamente, questa era la vita.