Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/163

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gherita; poi baciò il foglio, ed a malincuore si decise a ritornare in città. La luna seminava il viale di monete e disegni argentei; s’udivano ancora le rane e i canti dei pescatori; tutto era dolcezza, ma arrivato davanti alla sua casa, Anania udì grida, urli, strilli di donne, e voci d’uomini che pronunziavano parole infami: si volse e vide, davanti alle casette rosee che si scorgevano dal suo balcone, un gruppo di persone accapigliate. Alle finestre dei palazzi non si affacciava nessuno; pareva che gli abitanti del quartiere fossero abituati alla scena, all’ossessione di quella gente che si accapigliava in una mischia infernale, gridando le più luride ingiurie che l’uomo possa pronunziare contro il suo simile.

Davanti al giardino un grosso uomo vestito di velluto nero, immobile alla luna, si godeva la scena con aria quasi beata.

— Ma le guardie? Perchè non vengono le guardie? — gli chiese Anania, turbato.

— Che fanno le guardie? — rispose l’uomo senza guardare lo studente. — Ogni settimana son qui le guardie! Spintoni di qua, spintoni di là, tutto finisce e poi tutto ricomincia il giorno dopo. Bisogna mandar via quelle donne, — riprese l’omone, minacciando da lontano i rissanti. — Aspettate, ve la do io, adesso! Aspettate che tutti abbiano firmato il ricorso alla Questura!

— Ma che cosa è?

L’omone lo guardò con disprezzo.