Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/20

Da Wikisource.

— 14 —

quale starai benissimo; sta tranquilla, chè io non ti abbandonerò mai.

La condusse in casa di una vedova che aveva un figliolino di quattro anni. Nel vedere questo bambino, nero, lacero, tutto orecchie ed occhi, Olì pensò ai fratellini e pianse. Ah, chi si sarebbe più curato dei poveri orfanelli? Chi avrebbe dato loro da mangiare e da bere; chi preparerebbe il pane nella cantoniera, chi laverebbe più i panni nel fiume azzurro? E che avverrebbe mai di zio Micheli, il povero vedovo febbricitante ed infelice? Basta, Olì pianse un giorno ed una notte; poi si guardò attorno con occhi foschi.

Anania era partito; la vedova fonnese, pallida e scarna, con un viso di spettro, circondato da una benda giallastra, filava seduta davanti ad un fuocherello di fuscelli: tutto intorno era miseria, stracci, fuliggine. Dal tetto di scheggie annerite dal fumo pendevano, tremolanti, grandi tele di ragno; pochi arnesi di legno formavano le masserizie della misera casa.

Il bimbo delle grandi orecchie, vestito già in costume, con un berrettone di pelle lanosa, non parlava nè rideva mai; soltanto si divertiva ad arrostire castagne fra la cenere ardente.

— Abbi pazienza, figlia, — disse la vedova alla fanciulla, senza sollevare gli occhi dal fuso.

— Sono cose del mondo. Oh, ne vedrai delle peggiori, se vivrai. Siamo nati per soffrire: anch’io da ragazza ho riso, poi ho pianto; ora tutto è finito.