Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/21

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Olì si sentì gelare il cuore. Oh, che tristezza, che tristezza immensa! Fuori cadeva la notte, faceva freddo, il vento rombava con un fragore di mare agitato. Al chiarore giallognolo del fuoco la vedova filava e ricordava; ed anche Olì, accoccolata per terra, ricordava la notte calda e voluttuosa di San Giovanni, il profumo dell’alloro, la luce delle stelle sorridenti.

Le castagne del piccolo Zuanne scoppiavano fra la cenere che si spargeva sul focolare. Il vento batteva furiosamente alla porta come un mostro scorrazzante nella notte cupa.

— Anch’io, — disse la vedova, dopo un lungo silenzio, — anch’io ero di buona famiglia. Il padre di questo moscherino si chiamava Zuanne; perchè, vedi, sorella cara, ai figli bisogna sempre mettere il nome del padre affinchè gli somiglino. Ah, sì, era molto abile mio marito.

Alto come un pioppo, vedi là, il suo gabbano è ancora appeso al muro.

Olì si volse e sulla parete color terra vide infatti un lungo gabbano d’orbace nero, fra le cui pieghe i ragni avevano tessuto i loro veli polverosi.

— Non lo toccherò mai, — riprese la vedova, — anche se dovrò morire di freddo. I miei figli lo indosseranno quando saranno abili come il padre loro.

— Ma cosa era il padre? — chiese Olì.

— Ebbene, — disse la vedova, senza cambiar tono di voce, ma col viso spettrale lievemente animato, — egli era un bandito. Dieci anni