Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/206

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Egli interruppe di nuovo la lettera, di cui aveva scritto le ultime righe sotto l’impulso d’un improvviso stordimento.

— Sì, — pensò, — io sono troppo vicino alle stelle.... e non vedo l’abisso dove ineluttabilmente devo cadere.... No, no, no! — disse poi a voce alta, disperatamente, scuotendo la testa. — Perchè mi ostino? Essa può essere mia madre, e non si rivela a me per continuare a vivere nel vizio!

Egli singhiozzava senza lagrime, balbettando parole sconnesse e scuotendo follemente il capo; ma ad un tratto balzò in piedi, pallido, rigido, con gli occhi vitrei

— Bisogna uscirne, bisogna che io sappia. Ma perchè questa lampada accesa, perchè questi quadretti, perchè le continue preghiere? Ebbene, appunto per ciò. Ma io ti saprò smascherare, anima perduta, io ti ucciderò!

I suoi occhi balenavano d’odio, ma all’improvviso tremò, si lasciò nuovamente cadere seduto e battè la fronte sul tavolo: oh, avrebbe voluto spaccarsi la testa, non pensare più, dimenticare, annullarsi....

Si sentì vile, gli parve d’essere viscido e nero; d’essere carne della carne venduta di sua madre, anch’egli delinquente, misero, abbietto. Ricordi tumultuosi gli passarono nella mente; rammentò i generosi propositi tante volte accarezzati, il sogno di cercarla e di redimerla,