Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/217

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VI.


Prima di scendere a cena, egli s’affacciò al finestruolo della sua cameretta e rimase colpito dal silenzio profondo che regnava nel cortile, nel vicinato, nel paese. Gli parve d’essere diventato sordo. Ma la voce di zia Tatàna risuonò nel cortile, sotto il sambuco.

— Nania, figlio mio, scendi.

Egli scese in cucina e sedette davanti al piccolo tavolo apparecchiato solo per lui, mentre i suoi «genitori», al solito, cenavano seduti per terra, intorno ad un canestro colmo di focacce e di vivande.

La cucina era sempre la stessa, povera e scura, ma pulita, col focolare nel centro, i muri adorni di spiedi e di taglieri, di grandi canestri, di vagli e di setacci e d’altri arnesi per pulir la farina; in un angolo c’erano due sacchi di lana colmi d’orzo; accanto alla porticina spalancata stava appesa la tasca di cuoio per le sementi e le provviste da campagna del contadino.

Un porchetto grugniva lievemente e sbuffava e sospirava, legato al sambuco del cortile.

Un gattino rossastro andò tranquillamente a mettersi accanto al piccolo tavolo, e cominciò a sbadigliare, sollevando i grandi occhi gialli