Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/218

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verso Anania. Egli si guardava attorno quasi con stupore. Ah, nulla era mutato; eppure egli provava l’impressione di trovarsi per la prima volta in quell’ambiente, con quel contadinone dagli occhi ancora fosforescenti e i lunghi capelli oleosi, e con quella graziosa vecchia, grassa e bianca come una colomba.

— Finalmente siamo soli, — disse Anania grande, che mangiava l’insalata prendendola e stringendola fra due pezzi di focaccia. — Ora non ti lasceranno più in pace, vedrai! Atonzu di qua, Atonzu di là. Sì, oramai tu sei un uomo importante, perchè sei stato a Roma. Anche io quando tornai dal servizio militare....

— Eh, che paragoni son questi! — protestò un po’ scandolezzata zia Tatana.

— Ebbene, lasciami dire! Mi ricordo che provavo difficoltà a parlare in dialetto. Mi pareva d’essere in un mondo nuovo!

Lo studente guardò suo padre e sorrise.

— Anch’io! — disse.

— Oh, meno male! Io però, dopo, mi abituai di nuovo, mentre fra tre giorni tu sarai stufo di restare in questo paese pettegolo.... e.... e...

La vecchia lo guardò corrugando le sopracciglia, ed egli cambiò discorso.

— Che c’è dunque? Raccontatemi: che cosa dicono di me? — domandò Anania.

— Ma niente, ma niente! Lascia gracchiare le cornacchie.... — rispose la vecchia.

Egli si turbò; per un momento dubitò che si sapesse a Nuoro gualche cosa di Maria Obinu.