Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/29

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Io aspettai, aspettai, tre, quattro notti: filai un rotolo di lana nera.

— Dove era andato?

— Non te lo dissi? Ad una impresa, ad una bardana, ecco! — esclamò la vedova con una certa impazienza: poi riabbassò la voce: — io aspettai quattro notti, ma ero triste: ogni passo che udivo mi faceva battere il cuore; e le notti passavano, il mio cuore si stringeva, si faceva piccolo come il seme d’una mandorla. Alla quarta notte udii battere alla porta e aprii. «Donna, non aspettare più», mi disse un uomo mascherato. E mi diede il gabbano di mio marito. Ah!

La vedova diede un sospiro che parve un grido, poi tacque; e Olì la fissò a lungo, ma ad un tratto il suo sguardo seguì lo sguardo atterrito di Zuanne. Le manine del bimbo, dure e brune come zampe d’uccello, si agitavano e additavano la parete.

— Che hai? Che cosa vedi?

— Un motto.... — egli sussurrò.

— Ma che morto!... — ella disse ridendo, improvvisamente allegra.

Ma quando fu a letto, sola, in una specie di soffitta grigia e fredda, sul cui tetto il vento urlava ancora più tonante, smuovendo e sbattendo le assi, ella ripensò ai racconti della vedova, all’uomo mascherato che le aveva detto: «donna, non aspettare più!» al lungo gabbano nero, al bimbo che vedeva i morti, agli uccellini nudi del nido abbandonato, ai suoi poveri fratellini.