Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/290

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la cucina, e pareva non udisse davvero le parole di Olì; ma a un tratto trasalì e gridò: — Ascolto!

Ella riprese umilmente:

— Perchè dunque vuoi che io rimanga qui? Lasciami andare per la mia via: come un giorno ti feci del male, lascia che ora possa farti del bene. Lasciami andare: io non voglio esserti d’impedimento: lasciami andare.... per il tuo bene....

— No! — egli ripetè.

— Lasciami andare, te ne supplico: sono ancor buona a lavorare. Tu non saprai più nulla di me: sparirò come la foglia portata dal vento....

Egli s’aggirò su sè stesso; una terribile tentazione lo insidiò: lasciarla andare! Per un minuto secondo una folle gioia gli brillò nell’anima, al pensiero che tutto poteva considerarsi come un sogno maligno: una sola parola e il sogno svaniva e tornava la dolce realtà.... Ma subito ebbe vergogna di sè stesso: la sua ira crebbe, il suo grido echeggiò nuovamente nella tetra cucina.

— No!

— Tu sei una belva, — mormorò Olì, — non sei un cristiano: sei una belva che morde le sue stesse carni. Lasciami andare, fanciullo di Dio, lasciami....

— No!

— Una belva davvero! — confermò zia Grathia, mentre Olì taceva e pareva vinta. — C’è bisogno di urlare così? Nooo! Nooo! Nooo!