Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/317

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cordandosi che sua madre moriva; ma subito cercò di inorridire di sè stesso.

— Sono un piccolo mostro, — pensò; ma la sua gioia era così profonda e crudele che le stesse parole «piccolo mostro» gli parvero qualche cosa di buffo e lo esilararono.

Dopo un momento, però, sentì davvero orrore di ciò che provava.

— Ella muore, — pensò, — e sono io che la uccido: ella muore di paura, di rimorso, di dolore. Sì, io l’ho vista l’altro giorno ripiegarsi, restringersi, con gli occhi pieni di disperazione: le mie parole l’hanno ferita come pugnalate. Che cosa lurida è il cuore umano! Ecco che io gioisco del mio delitto, e godo come un prigioniero che riacquista la libertà dopo aver ucciso il carceriere, — mentre accuso di viltà Margherita e la disprezzo perchè ella dice sinceramente di non potere amare una donna perduta. Ah, io sono ben più vile; cento volte più vile di lei. Ma posso io sentire altrimenti? Qual turbine di contraddizioni spaventevoli, qual forza malvagia trascina e contorce l’anima umana? E perchè, anche comprendendo e aborrendo questa forza, non possiamo vincerla? Il Dio che governa l’universo è il Male, un Dio mostruoso che vive entro di noi come il fulmine nell’aria. E chissà, forse, mentre io mi rallegro per la probabile morte di quella disgraziata, questa potenza infernale che ci opprime e ci deride, fa migliorare l’infelice, e la farà guarire per mio castigo.