Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/93

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silenzio con un getto di freccie sibilanti. In quel lamento era tutto il dolore, il male, la miseria, l’abbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone; era la voce stessa delle cose, il lamento delle pietre che cadevano ad una ad una dai muri neri delle casette preistoriche, dei tetti che si sfasciavano, delle scalette esterne e dei poggiuoli di legno tarlato che minacciavano rovina, delle euforbie che crescevano nelle straducole rocciose, delle gramigne che coprivano i muri, della gente che non mangiava, delle donne che non avevano vesti, degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perchè non potevano percuotere il destino, delle malattie non curate, della miseria accettata inconscientemente come la vita stessa. Ma chi ci badava?

Lo stesso piccolo Anania, coricato supino sui limitare della porta, scacciava le mosche e le vespe agitando un fiore di sambuco, e pensava istintivamente:

— Uhf! Perchè grida sempre quella lì? Cosa la fa gridare? Non ci devono essere gli ammalati nel mondo?

Egli s’era fatto tondo tondo, ingrassato dai cibi abbondanti, dal dolce far niente e sopratutto dal sonno.

Dormiva sempre. Ed anche nei meriggi silenziosi, nonostante il grido continuo di Rebecca, egli finiva con raddormentarsi, col fior di sambuco nella manina rossa, e il naso co-