Pagina:Deledda - Colombi e sparvieri, Milano, 1912.djvu/140

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un odore di ovile; dal soffitto pendevano grappoli di uva gialla e di pere rossiccie appassite.

Columba si avvicinò alla parete di fondo e la spinse; un usciolino s’aprì, stridendo lievemente come una corda di violino, e lasciò vedere un andito buio quasi tutto occupato da due casse nere. Da una di queste era sparita la cassettina coi denari. Columba l’aprì e a tastoni vi frugò dentro, come cercandovi ancora il tesoro. Nulla.

Aprì l’altra. Nulla. Si sollevò per guardare sulla sporgenza del muro, infine salì su una scaletta a mano in fondo all’andito, si trovò in una specie di piccolo soppalco che per una botola comunicava con le soffitte bassissime della casa. Ella sollevò la botola e un po’ di luce giallognola rischiarò il luogo misterioso. In un angolo stava una stuoia di giunco, ove forse qualche bandito aveva dormito i suoi sonni agitati; c’erano ferramenta arrugginite, una brocca, un archibugio antico e dentro una nicchia una piccola statua nera di San Francesco e un lumino spento.

Columba sollevò la stuoia, guardò fra i mucchi di oggetti disusati che ingombravano il luogo, poi tirò su la scaletta, l’appoggiò alla botola e fu nella soffitta che comunicava coi tetti.

Così in caso di pericolo e di sorpresa dovevano nascondersi e fuggire i suoi padri divorati dall’odio e dalla sete di vendetta, al tempo delle inimicizie selvaggie sì, ma anche eroiche e grandiose. Adesso i tempi erano cambiati; la gente s’odiava ancora ma giocava d’astuzia e la lingua era la sua arma, la calunnia il suo veleno.

Columba, che un tempo aveva rivelato al suo innamorato tutti i segreti della casa, adesso si aggirava nelle camere, nei nascondigli e nelle soffitte cercando qualche cosa che non riusciva a trovare. Ogni volta che il nonno si assentava