Pagina:Deledda - Colombi e sparvieri, Milano, 1912.djvu/309

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il passo lieve di Pretu strisciò nel silenzio del cortile e parve sperdersi sulle traccie della voce lontana del dottore.

Jorgj indovinò ciò che il ragazzo aveva voluto tentare e asciugandosi col fazzoletto il viso cominciò a ridere. A poco a poco la sua risata, dapprima lieve, si fece alta, nervosa, insistente. Egli la sentiva risonare nel buio, e gli pareva la risata di un altro, di un uomo felice che si moveva, si disponeva ad uscire e ad andarsene per il mondo pieno di gioia. E pur abbandonandosi alla sua gaiezza puerile se ne domandava sorpreso il perchè. Perchè? perchè?

Era lui l’uomo felice. Gli sembrava di non esser più malato: le chiacchiere del dottore, la visita del nonno, le fattucchierie di Pretu, tutto gli appariva così bello, così divertente!

Ma un singhiozzo nervoso seguì la risata, e di nuovo un abbattimento profondo lo vinse. Perchè ridere così? Aveva ragione di ridere? Ah, perchè quest’insonnia, stanotte? Non manca che l’insonnia, adesso, per render più completa la sua miseria. Ebbene, che importa se anche il nonno riconosce i suoi torti? Può rendergli l’onore, non gli rende la salute; ed è questa che egli vuole, adesso che ha riavuto tutto il resto: la fama, la giustizia, l’amore.

E ricomincia a turbarsi, a palpitare, e ripensa alla lettera della sua amica, ma gli sembra di averne dimenticate le parole.

Riaccendo il lume e rilegge:

«Anch’io l’amo, come lei, Giorgio, mi ama; e il nostro amore non può venir distrutto nè dal tempo nè dalla lontananza: sorgente inesausta che alimenta la nostra vita, esso è lo stesso amore dell’amore....»

Attorno alla parola «amore» le altre della lettera si aggruppavano come pianeti intorno alle