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e a poco a poco tira le altre, irrimediabilmente. Poi un’altra cosa accadde: un altro poeta si accorse di lei: e questo era vicino e accostabile: oh, anche troppo, accostabile, poiché egli faceva di tutto per esserlo. Ma, ahimè! era un ben piccolo e triste e meschino poeta, in tutto. Era zoppo, fin dalla nascita; non poteva studiare per mancanza di mezzi, non riusciva a trovare un posto decoroso per mancanza di studio: era il figlio illegittimo del cancelliere, quello venuto ad abitare in fondo alla strada, e, si diceva, del cancelliere stesso, che non lo riconosceva ma se lo tirava appresso, lo manteneva, gli faceva fare il copista, e gli permetteva di scrivere versi.

Il cancelliere era vedovo: aveva due figlie già anziane, una tutta riccioli neri, tinti e grassi, l’altra di un biondo di stoppia bruciata, con una guancia pelosa come quella di un gatto. Si volevano tutti bene: le ragazze sognavano un ricco matrimonio per il presunto fratello. Fortunio, si chiamava, ed esse speravano che il nome gli portasse fortuna: ed era anche bello di viso, con due grandi occhi castanei, femminei, i capelli lisci, dello stesso colore, quasi della stessa lucentezza, un non so che di carezzevole e languido in tutta la persona, anche nel modo di trascinare la gamba storta con la scarpa che pareva di ferro.

Le sorelle riuscirono a fare amicizia con Cosima; un’amicizia un po’ sostenuta e cerimoniosa, però; mandavano la serva a domandare quando