Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/112

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non si accorgeva di lui, piegato com’era a soffiare sul fuoco fumoso di un fornello da muratore, si avanzò di nascosto, gli piombò alle spalle, e su queste battè un pugno potente.

Il meccanico balzò in piedi ululando, con gli occhi verdi spalancati. Riconobbe il compaesano; gli restituì senz’altro il pugno sul fianco. Poi si abbracciarono.


— Dov’è dunque l’officina? — fu la prima domanda dell’amico. — E tu, dove stai?

— Qui — dice l’altro, additando il casotto come un castello. — Adesso ti dirò: vieni dentro.

Dentro c’erano arnesi di muratore, un giaciglio fatto di assi e stracci, e, ai piedi di questo, una macchina d’arrotino. Non essendoci altro, si misero a sedere sul giaciglio, davanti al fornello, la cui sola fiamma illuminava l’ambiente. Come quadro non c’era male; ma il compaesano non ricordava di essersi mai trovato, neppure nelle stamberghe più strette e povere del paese, in un luogo più sudicio e disperato di quello: la cosa più confortante era la faccia tosta di Michele Paris. Tirandosi indietro i capelli infiammati ma anche pieni di polvere e di pagliuzze, egli diceva, con la sua voce ancora rauca di adolescente:

— Ci ho la camera, in città, col letto grande e le sedie; ma l’officina non è qui. Qui, — aggiunse abbassando la voce, — vengo per far piacere all’impresario della fabbrica accanto; che, del desto, mi paga. Si tratta di questo: hanno trovato una statua antica, nelle fonda-

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