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Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/121

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che aveva la data delle nozze, pareva un palo in una pianura nevosa che indicasse la direzione della via da seguire. E lui se ne era andato, per quella via, appunto in un bel giorno d’inverno tutto scintillante di neve: ma la madre aveva chiuso le imposte e dentro le era rimasto solo il buio e la desolazione dei luoghi ove non ci si sa più orizzontare.

Quest’impressione le durava ancora, quando uno squillo, simile appunto a quello di una stazione di campagna all’annunzio del passaggio di un treno, la richiamò all’ordine. Era il telefono.

— A quest’ora? Chi può essere? Forse uno scherzo del vento?

Ma non era poi tanto tardi: la sveglia, nella saletta da pranzo dove da tanto tempo il telefono non funzionava che parcamente per i fornitori della famiglia, segnava le undici.

— Pronti. Pronti.

— Con chi parlo? Pronti. Mamma sei tu?

La voce veniva di lontano, come da una grotta marina; e cavernosa lo era, ma nello stesso tempo incantata, simile a quella dell’eco.

— Cesco! Sei tu?

Così si incontrarono, madre e figlio, attraverso uno spazio iperboreo, nel vento che di fuori pareva appunto il rombo delle onde contro l’apertura scogliosa di una grotta: ma dentro tutto davvero si fece luce, con stalattiti iridescenti e fantasmagorie favolose di perle e diamanti, e intorno l’azzurro dell’infinito, quando la voce lontana disse:

— Mamma, devo darti una buona notizia,


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