Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/120

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allo scheletrino grigio dell’olivo, i fogli a terra fossero brani di fantasmi: fantasmi ch’ella da due mesi aveva chiuso nella camera, dove non era più entrata per non soffrire la loro presenza. Così, per la noncuranza dolorosa di lei, la persiana era rimasta mal fermata, e il vento aveva avuto buon gioco come il nemico contro l’avversario addormentato.

Ella raccolse i fogli, li fermò sullo scrittorio a fianco della finestra: spiegò la tovaglietta, sollevò la scatola sul cassettone: ogni oggetto le gelava e bruciava le dita, quasi fosse quello di un morto adorato.

E non era forse morto, per lei, il suo unico figlio, il suo sempre piccolo Cesco, che si era sposato, andato lontano, abbandonando il vecchio nido per formarsene uno tutto nuovo? Ella non voleva male alla donnina che si era portato via il figlio. Ma era stata, ed era, gelosa di lei, come tutte le madri che si vedono portare via i figli, d’una gelosia ch’ella era la prima a riconoscere animalesca e superficiale. Più che altro, forse, a farla soffrire era la rottura delle abitudini familiari, o quel senso di vuoto che lascia la partenza di una persona amata. Disse bene chi disse: partire è un pochino morire.

E tutto era morto davvero, nella casa grande in cui le risate, i pianti, le canzoni e le collere di lui, e i suoi passi e soprattutto il suono della sua voce, avevano palpitato come il sangue in un corpo giovane e vigoroso.

Oltre alla scatoletta rovesciata, altri oggetti si allineavano sul marmo del cassettone; un porta calendario di ferro battuto, con l’ultimo foglietto

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