Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/119

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della notte agitata, ne completava l’impressione. D’un balzo, per evitare una nuova invasione del vento, la signora tirò con tutta la forza delle sue braccia ancora bianche e resistenti, le persiane ribelli e, per maggiore sicurezza, legò la maniglia col cordone della sua vestaglia; poi chiuse i vetri, attenta a non ferirsi con quello del quale rimanevano solo due pugnali verdastri, e fermò gli scurini sulle tendine dove i grifi del filè continuavano a rincorrersi tranquilli. Il vento ricominciò: ma era vinto, ormai, e batteva invano le sue armi contro la persiana che non si moveva più.

Allora la signora si volse, e le parve di riflettere sul viso i biancori della camera: quello della coperta del lettuccio, quello del pavimento inghirlandato di edera nera, e soprattutto quello gelido del marmo del cassettone. Un senso di smarrimento era intorno e dentro di lei: il vento aveva sparso qua e là i fogli di carta e di giornale, sollevato la tovaglietta del comodino, rovesciato una scatolina sul cassettone: ma, quello che alla donna sembrava più significativo e di fatali presagi, staccato dalla testiera del lettuccio il ramoscello di ulivo benedetto: le foglie accartocciate si erano disperse, chi sa dove; si erano nascoste, come spaventate dall’assalto dell’invasore: rimaneva il piccolo scheletro del ramo, sul lettuccio funereo.

— La colpa è mia, la colpa è mia, la colpa è mia — ella disse fra sé; e le parve d’inchinarsi, come il peccatore quando, davanti all’altare, si picchia con involontaria ipocrisia il petto.

Poi si guardò attorno, e le parve che, oltre


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