Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/156

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volta intorno alle belle ragazze i mosconi amorosi.

Ma fra tutte le agevolezze e le oneste provvidenze di questo luogo, dove la giornata passa simile a un gioco di fanciulli sulla rena, una è davvero straordinaria e quasi miracolosa. Tutti, più o meno, conosciamo le ore di inquietudine quando, nella metropoli, uno della famiglia si sente male, e si aspetta con ansia la visita del dottore. I dottori hanno sempre da fare, in città; per quanto premurosi, e alcuni veramente amici dei loro clienti, la loro visita non può essere immediata. Qui, invece, il dottore è pronto: come un arcangelo anziano ma arzillo ancora, arriva biancovestito sulle ali della sua bicicletta, e in un attimo le sue parole rischiarano l’abbuiato orizzonte domestico. E le sue ricette non sono dispendiose: «acqua fresca e pura» o, al più, qualche limonata purgativa. Se poi da Ravenna arriva con la sua macchina da traguardo la dottoressa, bisogna quasi far festa alla malattia, come ad un’ospite ingrata che sappiamo di dover fra qualche ora congedare.

La dottoressa è bella, elegante; alla sera si trasforma come la fata Melusina, coi suoi vestiti e i suoi gioielli sfolgoranti, e gli occhi e i denti più sfolgoranti ancora: ma fata lo è anche davanti al letto del malato, sia un principe o un operaio, al quale, oltre alle sue cure sapientissime, regala generosamente bottiglie di vino antico e polli e fiori. Il suo nome è Isotta.

Del resto, anche il perire, in questo soggiorno fiabesco, non dovrebbe essere agitato e pauroso: morire, appunto come nei racconti delle antiche

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