Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/164

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estesa di esse, che sfida maggiormente la fantasia di chi guarda, con una capanna da pescatore, nera e pennuta, sotto un esile pioppo di stagnola, e un fuocherello sullo spiazzo sterposo. Che fa l’abitante dell’isola felice? Probabilmente scioglie un tegamino di pece per rattoppare la sua barca; o forse arrostisce l’unica tinca che ha potuto pescare durante la giornata; ad ogni modo, veduto di lontano, attraverso lo spazio liquido e mobile del fiume e nell’atmosfera illusoria del tramonto, egli si alza alla statura di un conquistatore di terre inesplorate.

Tutto è bello e buono quando si è ancora giovani, sani, compagni di gente leale e semplice: anche nel focolare del mulino arde la fiamma ospitale: il vecchio si era tolta la giacca e aveva impastato la farina, sull’asse bianca che tremolava quasi ridente. Con un accento di segreto, ammiccando verso la biondina che si era già messa a flirtare col più giovane dei mugnai, mentre io guardavo con curiosità la sua fatica, disse con aria da iniziato: — Per esser speciali, questi qui, bisogna impastarli con l’acqua del Po. Vedrà, vedrà: è ben altra cosa che quelli del paese.

Si trattava di gnocchi: in breve uscirono dalle sue mani come tante susine bianchicce, e il mugnaio anziano venne ad ispezionarli toccandone uno con la punta dell’indice. Bene, bene; non restava che cuocerli e condirli: il che fu fatto con rapidità incredibile. Ma dov’era la tavola? Bene o male vennero, sì, fuori le stoviglie: certe scodelle grigie e rosse di terra cotta che davvero parevano del tempo dei palafitticoli; e anche tre

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