Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/173

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rivare in tempo a prendere il treno. Affrettò il passo; quando non vedeva nessuno si metteva a correre, le sue gambe erano lunghe, corazzate dagli agili calzettoni sportivi; e allenate, anche; ma le vie del mondo sono più difficili di quelle ben tenute delle piste: corri, corri, Giuseppe; il sole al tramonto si diverte ad allungarle esageratamente, le tue gambe, e ingrandisce i tuoi piedi come se calzati con le scarpe delle mille leghe: d’improvviso il sole si nasconde dietro le vigne, ma per non ricomparire più; e anche Giuseppe si ferma e si sente solo, avvilito come l’uomo senz’ombra.

Riprese a camminare, cominciando però a credere di essersi smarrito: l’incontro con qualche viandante non gli dispiaceva più come prima; ma erano rapidi incontri; donne nere in bicicletta, violenti motociclisti che passavano come semidei avvolti in nuvole di polvere: carri di fieno, in cima ai quali il contadino filosofo si riposava come su un talamo ambulante. Oh, Giuseppe, piacerebbe anche a te partecipare a quel posto, per te, in questo momento, più fantasioso e comodo della prua di una nave, ed anche di una navicella di velivolo; e andare, andare, nel cerchio rosso-blu dell’orizzonte, così dolce sopra gli alberi già scuri; andare, andare, almeno fino alla stazione.

Ebbene, il suo desiderio fu in parte esaudito. Ecco che, dopo un’altra buona tirata, quando il rosso-blu del cielo si è spento in un colore di lavagna, egli arriva davanti a una specie di accampamento di selvaggi, fatto di capanne co-


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