Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/174

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niche, di paglia; ed anche di una casetta, in fondo, che sembra una di quelle piccole chiese, di assi e di mattoni, che i Missionari s’ingegnano di edificare appunto nei luoghi più lontani delle regioni non ancora civilizzate. Al nostro viaggiatore non dispiace il posto; e per un momento si incanta a guardarlo dal socchiuso cancello di rami che conclude il recinto, tanto più che una grande luna infocata sorge in una lontananza quasi marina, accrescendo il fascino nostalgico del paesaggio: anzi ha desiderio di fermarsi là, per una prima sosta: può anche darsi che ci sia da fare qualche cosa, utile per lui e per gli altri. Molte cose egli sa fare: potrebbe anche insegnare a leggere e scrivere ai selvaggi, come i suoi odiati maestri hanno fatto con lui: e quasi tutti i grandi uomini, scrittori, esploratori, inventori, hanno cominciato la loro carriera con l’esercitare i più duri mestieri. Poi ride e sbadiglia, con un ringhio di cane affamato: sa benissimo di fantasticare, e che il solo suo scopo è di introdursi nel recinto, avanzandosi fino alla casetta dei contadini per domandare se la strada per la stazione è quella: sa pure benissimo che non sdegnerebbe di comprare dagli stessi contadini una pera o un grappolo d’uva ancora acerba, per tappare in qualche modo il buco che gli si apre nello stomaco: ed entra, e passa fra l’una e l’altra delle fiabesche capanne, accorgendosi che sono alti e solidi pagliai, ad uno dei quali, già intaccato in cima, è appoggiata una scala a piuoli. Dai pagliai alla casa, della quale però Giuseppe osserva la porta e le finestre chiuse, c’è appena

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