Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/175

Da Wikisource.

lo spazio dell’aia ancora ingombra di stoppa e di mucchi di pula; e tuttavia egli non ha il tempo di attraversarlo perchè un grosso cane nero, con gli occhi di brage, sbucato di dietro la siepe, urla con un boato di mostro, e gli corre incontro. Freddo di terrore, il ragazzo ebbe però l’istinto e la prontezza di arrampicarsi sulla scala a piuoli e salvarsi in cima al pagliaio; ma non del tutto sicuro di sfuggire all’assalto della bestia, ancora più inferocita dalla presa di possesso di lui.

Invano tentò di nascondersi in mezzo al fieno, per fortuna già smosso dal tridente del contadino: il cane non si chetava, anzi raddoppiava i latrati. Mai Giuseppe aveva sentito urli simili: e altri cani rispondevano, da vicino e da lontano, con un coro che, nel silenzio del crepuscolo lunare, accompagnava, quasi con una certa unanime solidarietà, la protesta furibonda del guardiano dei pagliai. Siamo qui, pareva a Giuseppe che dicessero; anche se ti riesce di fuggire dal tuo nido, ti prenderemo noi e ti succhieremo come un osso.

Il cane, giù, protestava più sdegnato, spettava solo a lui far giustizia dell’intruso: che egli scivolasse appena dal pagliaio e avrebbe il fatto suo.

— Mi sbranerà i pantaloni, — gemeva Giuseppe, frugando tra il fieno per nascondersi meglio, — mi morsicherà; se non morrò, dovrò per lo meno fare la cura antirabbica. Ecco che adesso il maledetto scava con le zampe la base del pagliaio; lo farà crollare; farà di me una pizza. Ecco che si arrampica sulla scala: se la


— 165