Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/190

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vita: una vecchia fila su una scaletta esterna, con una gallina bianca appollaiata sulla spalla, mentre ai suoi piedi un orfano porcellino da latte, nudo e roseo come devono essere quelli degli ovili celesti, succhia il latte da una capra barbuta nei cui grandi occhi di vetro si riflette l’azzurro della vetta.

In cima, con la facciata sulla piazza e il fianco incastrato in un blocco ciclopico di precipizio che sembra per sè stesso una torre inespugnabile, sorge il castello, o meglio la rocca, o meglio ancora il groviglio di antri, androni, sotterranei, stalle e caverne dove vivono due fratelli testoni ciociari che pretendono di essere i discendenti dei signori del luogo. E potrebbero pretendere di essere anche i più puri discendenti degli Ernici, tanto le loro persone sono ruvide e forti, e le teste nere coperte di riccioli con le punte rossicce come bruciacchiate dalla vampa gelida dell’aquilone.

Forza, vigoria, anche buon umore quanto ne volevano; ma quattrini pochi: e quindi escogitavano tutti i mezzi per farne, tanto più che avevano moglie, figli, sorelle e vecchie da mantenere; tutti appollaiati nelle nicchie della rocca come cornacchie felici.

Le famiglie erano però separate, e lo spazio tanto che le donne non avevano modo di incontrarsi e litigare; eppure una sorda gelosia li rodeva, anche i fanciulli, perchè se il fratello maggiore, dal bel nome di Florindo, era più svelto e fortunato negli affari, il più giovane, Angioletto, aveva figli più sani e più belli: e questi

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