Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/26

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versa dalle altre; e il suo albergo, la sua fortuna, l’ombra medesima che si accovacciava al fianco e in qualche modo gli mostrava il suo corpo, un giorno povero e scarno, adesso forte e squadrato, sembravano all’uomo distaccati e lontani dalla realtà. Poichè in fondo, egli conservava anche un senso melanconico e timidamente stupito della vita: gli sembrava sempre di sentire il vuoto e l’inumano clima del neonato buttato via alla terra, dal calore del grembo materno, come un detrito quasi immondo; e l’umiliazione panica della prima fanciullezza, poi quella, cosciente e fra rabbiosa e rassegnata, della giovinezza pur seria e laboriosa, e lo stesso suo modo di tirare avanti l’esistenza, fra mare e cielo e il caldo e i cattivi odori delle stive e di una umanità grezza, a lui, se non nemica, indifferente, gli davano un senso di deformità quasi fisica, come se egli fosse un gobbo o uno storpio, esiliato dal giardino degli uomini.

Ma la bontà naturale, la sua stessa mansuetudine di bestia maltrattata stendevano una luce quasi mistica intorno a lui; come quella che la luna, adesso, spandeva sulle cose assopite, se non morte.

Assopita doveva essere anche la donna, nella sua casupola, o forse anche lei piegata a risalire il corso della sua grama giornata, poichè si vedeva ancora un barlume non di candela ma di fuoco alla finestra che l’antico cuoco di bordo sapeva essere quella della cucina. Gli sarebbe bastato, come altre volte, scavalcare la rete, per accostarsi alla finestra, e almeno vederla; ma non ne aveva neppure il desiderio: gliel’avevano

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