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Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/295

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bisogno di controllare la realtà di queste, diremo così, rivelazioni: così, mi piaceva di andare nella valle o sui monti, per il godimento della natura, ma anche per vedere nel loro sfondo preciso i contadini e i pastori: e di penetrare nelle stamberghe dei poveri più che per carità per desiderio di studio. E così andai con la servetta nell’ambulatorio neolitico di comare Marghitta: con la scusa che anch’io avevo forse bisogno di consultarla. La ragazza ne fu tutta felice: mal comune mezzo gaudio: e poi, a dir la verità, aveva un po’ di tremarella addosso all’idea di sottoporsi chissà a quali esorcismi, o di ingoiare una medicina amara. — Niente ingoiamenti, — le dico, stringendola per il braccio che sembrava un cero, — non ti lascio bere neppure acqua: ti devono bastare le cure esterne.

Si va, verso sera, con la scusa di un passeggino intorno a casa, e questa volta si riesce a vedere tutto l’interno della tana misteriosa: che poi non era come lo si immaginava; alla nera fuligginosa cucina di entrata seguiva una stanzetta pulita, con pavimento di fango battuto, sì, ma le pareti imbiancate con la calce e piene di immagini sacre: un finestrino alto, quasi sotto il tetto, dava luce alla camera: per chiudere lo sportello bisognava salire sulla spalliera di una seggiola. E fu mio il compito, quando la donna, che già aveva guardato la ragazza e capito di che si trattava, accese un lumicino ad olio e disse: — Bisogna chiudere.

Mi arrampico: un quadro noto, mai abbastanza ammirato, si apre di là dei bassi tetti sui quali guarda il finestrino: sono i monti, vio-


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