Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/69

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Ma fu una bella giornata che rinnovò quasi i fasti sonori delle battute da caccia quando gli amici dei signori arrivavano a cavallo, con le ondate tumultuose dei cani frementi, e le trombe squillavano come ai tempi di Carlo Magno.

Vi fu un banchetto; stridettero gli schidioni feudali della cucina linda della piccola Betta, e la tavola fu imbandita sotto gli elci che avevano i fiori del colore dorato delle pernici.

E Betta, anch’essa svolazzante nelle vesti ancora corte, coi capelli iridati come le penne delle folaghe e gli occhi pieni della luce cangiante e liquida della foresta e dello stagno, versava il vino nei bicchieri stemmati ancora cerchiati da qualche filo di polvere delle credenze di quercia della villa, e volgeva il viso di profilo per nascondere nella bocca serrata un sorriso di beffa e di compiacenza per le paroline dei galanti cacciatori.

E il signorino era tornato altre volte, solo, per conto suo.


Il vecchio era da mezzo secolo al servizio dei signori, che lo avevano sempre maltrattato, non per voluta cattiveria, ma perchè questo era il loro carattere. Le loro donne, a volte, si servivano delle donne del guardacaccia, ma sempre con la stessa indifferente lontananza dei padroni dai servi buoni e passivi: eppure egli non li odiava, e la fedeltà gli scorreva nel sangue come la linfa pura nell’acqua di sorgente. Inoltre era religioso come un eremita, del quale possedeva qualche sfumatura: una religione soffusa di credenze, se non superstiziose, certamente


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